giovedì 13 ottobre 2011

Lèon [Review]

Che uno dice: perché gli si vedono i calzini? Perché è killer, period.

Lèon è un thriller. Lèon è un film d'azione. Lèon è un film del Luc Besson de Il Quinto Elemento e Nikita, di quel Luc Besson che quando vuole sa fare il suo sporco lavoro in modo delicato che o-mamma-guarda-che-roba. Più di tutto questo, Lèon è un film d'amore. L'amore proibito tra un killer quarantenne e un'orfana dodicenne, troppo piccola per contenere più di due sentimenti tanto contrastanti quali l'Odio e l'Amore. L'Odio per la vita, l'Amore per chi la toglie. Lèon è, non si fosse ancora capito dalla solennità di queste prime righe, un film meraviglioso. E ci si chiede: perché? 


OGNI scena di questo film in cui compaiano questi due trasmette pura elettricità.


Due ore e sette minuti di puro spettacolo visivo, graziato da una fotografia allucinantemente curata, da una regia minuziosa e certosina, da uno script di quelli cazzuti, da dialoghi maturi farciti d'infantilità; magari un pò troppo palesemente censurato per venire incontro a quell'evergreen che vuole l'America perbenista. E allora via dal film la scena che più gli avrebbe dato concretezza, dentro le scene alla uòzzamericanboi (perlomeno limitate a qualche singolo minuto e pure quelle divinamente costruite).
127 minuti ritmati a singhiozzo, ora pacati, ora lanciati a folle velocità, ora drammatici, ora divertenti pur nel raccontare della pietà che emana un personaggio tanto forte quanto debole, incompleto se non fosse per la sua partner lavorativa, un fulmine a ciel sereno in una vita emozionalmente spenta.
Via l'ipocrita buonismo tipico di tanti copioni recenti e non, dentro la realizzazione conclusiva dell'inarrivabilità del finale a cielo aperto.


Nah, tranquilli, l'oscar datelo pure a Tom Hanks e Holly Hunter.

E ora fuori la verità: cosa sarebbe in realtà Lèon senza il suo cast? Un film spento, forse un pò troppo malinconico, con un ritmo difficilmente sostenibile se non fosse per Loro.
Fermi restando alla magistrale interpretazione di Gary Oldman (Dracula in "Dracula di Bram Stoker" [Coppola] per i fan di vecchia data, commissario Gordon nei recenti "Batman ..." [Nolan] per i neofiti del cinematografò), Lèon vive di Jean Reno e Natalie Portman; letteralmente, il film si alimenta di due mostri della scena, capaci di trasmettere emozioni a iosa, facendo trasparire su schermo ogni singolo sentimento, rendendo umani personaggi che troppo spesso, specie di questi tempi, restano relegati all'interno dello schermo, là dove lo spettatore è mero (si perdoni la ripetizione) spettatore e non protagonista, seppur sempre  indiretto dello spettacolo.
Lui, dall'alto dei suoi 188 cm, killer implacabile, lupo solitario, ignorante, gentile, riservato, moralista nel suo essere assassino, contraddittorio e sentimentale. Lei così spigliata, così triste, così confusa ma al contempo felice della semplicità insita nel compiere del bene, malgrado tanta determinazione nel perseguire la vendetta.
E poco importa che nessuno dei due sia manco stato nominato agli oscar (sic.): guardare Lèon vuol dire assistere alla massima espressione d'amore per il proprio lavoro, in questo caso l'attore, perpetrata da un navigato Reno mai così perfetto per il suo ruolo, e da una esordiente (!) Portman mai più così bella e brava.
Lèon è un'esperienza di vita, una metafora sull'assoluta noncuranza con cui il mondo prosegue il suo ciclo quando la vita umana si spegne, la massima espressione del potere che l'amore ha sull'animo umano.

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